Di solito. Ovvero come eravamo stati prima del Coronavirus
- Post 28 Marzo 2020
La anticipavo aprendo un occhio solo in cerca di quello spiraglio di luce che mi annunciasse il giorno. Un colpo di schiena, un piede giù a sfiorare il pavimento in cerca delle ciabatte: “Anche stamattina sto pavimento non è freddo. Siamo quasi a primavera. Non ci sono più le stagioni. Chi sa dove stiamo andando”.
Ad occhi ben serrati, continuavo a cercare e, al solito, beccavo la ciabatta dell’altro piede. Poi in bagno, dove, l’avvolgibile automatico, lentamente, cominciava a sfogliarmi il nuovo giorno: “Oggi ancora sole a catinelle, che inverno strano, pare primavera. Chi sa come ce la passeremo quest’estate? Cosa ci berremo?”
Assorto in tali luoghi comuni esistenziali, accendevo la tv per non ascoltare i vari notiziari zeppi del blaterare di politici di ogni livello e salsa, l’uno contro l’altro fintamente armati e, solo a contorno, la cronaca di un Paese reale che arrancava tra un femminicidio, una buona azione, ultimamente, Wuhan, e da un bel po’, migranti. Tra il serio e il faceto molto altro, lì a non più di un metro e mezzo dal tavolo da cucina, sempre a chilometri dal mio ascolto. Nel frattempo, colazione, caffè, scelta dei vestiti a cipolla per potermi sfogliare durante l’ennesimo giorno di caldo anomalo, un giro sul pc, due carezze, un bacio, le chiavi e via verso l’uscio, verso l’uscio …. verso l’uscio ….che da un mese circa non si apre più, non deve aprirsi: dove stavamo andando ci siamo già arrivati, ci ha portato per direttissima il coronavirus, appostatosi lì a un metro e mezzo dall’uscio, sul pianerottolo di casa.
La Cina era lontana: fabbrica del mondo, ma lontana, dicevamo. Wuhan? un frutto, una cineseria, una città? Bo!
I manager, i turisti, i migranti, tutti, tranne gli ultimi, avevano gli occhi a denari, mica a mandorla. Tutti, tranne gli ultimi, iper-connessi e portatori di sana ricchezza, sano lavoro. Tutti, tranne gli ultimi, fruitori di aerei iper-tecnologici, iper-veloci e iper-comodi anche per il coronavirus. Cent’anni fa ricchezza e lavoro “volarono” sui transatlantici già tecnologici, già veloci e comodi anche per la Spagnola: partivano da “l’Ammerica”, fabbrica del mondo d’allora. Ammesso che la Storia si ripeta, non impariamo, non impareremo mai. O, forse sì?
Al prezzo di molto sangue, da allora sono cambiate molte cose, e in positivo: Io, discendente dei “Cafoni” di Levi, ho potuto far curare mio padre dal Servizio Sanitario Nazionale, ho potuto studiare e laurearmi in scuole pubbliche, avere due figlie frutto e fruitrici di molti altri servizi sociali, a dir il vero, ultimamente tutti un po’ ammaccati, nonostante l’ombrello di una delle Costituzioni tra le più avanzate al mondo, un po’ ammaccata anch’essa: ma vedrete resisteranno, resisterà, resisteremo. Ah! Mi sono permesso anche molti altri vezzi, tanti, troppi, quanto basta da farmi diventare sordo e scambiare per luoghi comuni le tantissime travi che andavano scricchiolando lì a un metro e mezzo dal mio orecchio.
L’elenco è lungo, e ho intenzione di snocciolarmelo punto per punto, perché è l’insieme esplosivo della mia parte di irresponsabilità, egoismo e sordità attraverso cui, anche seduto sul mio iper-comodo divano, ho portato in giro per il mondo mostri di ogni genere, e adesso, me li ritrovo tutti lì sul pianerottolo a un metro e mezzo dall’uscio, in forma di coronavirus.
Eccoli. Ho sparato a mille il condizionatore perché non sopportavo più il caldo di maggio, mica quello di ferragosto.
Ho sparato a mille il riscaldamento ad ottobre, mica i giorni della merla quando ancora c’erano.
Ho visitato i fiordi norvegesi e Venezia dal balconcino kitsch di una delle tante Concordia che ancora vanno arando i mari. Un weekend si e uno no, ho visitato in volo A/R le capitali e i borghi esotici di mezzo mondo alimentando solo il mio bagaglio di selfie, mica quello della mia e della cultura di quanti andavo incontrando.
Ho abbattuto l’albero davanti casa solo perché mi rovinava il panorama sul condominio di rimpetto. Ho consumato pile di carta senza curarmi delle foreste che venivano distrutte per produrla.
Ho riempito di ciarpame la mia casa e il mio stomaco pur senza curarmi dei danni che provocavo gettandoli poco più in là del mio raggio visivo e del mio olfatto.
Ho confezionato tutto sto ciarpame in montagne di plastica senza curarmi delle anomali isole che andavano formandosi in mezzo agli oceani.
Ho accolto l’animale esotico tra le mie mura domestiche dopo avergli devastato l’habitat naturale. Dopo avergli trivellato casa in cerca di sempre maggiori quantità di oro, petrolio, diamanti e ogni genere di materia prima per poi inondarlo di ogni genere di bene di consumo, non ho accolto l’immigrato perché mi rubava il lavoro e aveva il telefonino da me stesso vendutogli. Non lo ho accolto, pur essendo lucano, quindi vittima quasi dello stesso trattamento.
Ho elemosinato diritti invece di pretenderli, ho svenduto il futuro mio e delle mie figlie perché ho votato politici, incompetenti e irresponsabili quanto me, che non hanno saputo far altro che salire di volta in volta su carri e carrocci del vincente di turno e, tutt’insieme indistintamente, stare al giogo e guinzaglio del peggiore dei poteri, quello finanziario.
Ho consumato, consumato e consumato per poi sperperare, sperperare e sperperare, scambiando per prurito il fischiettio che avevo nelle orecchia. Mi fermo, altrimenti, non basterebbe la pur lunghissima nottata che ci aspetta.
Sul giorno che verrà, perché verrà, non so. So solo che adesso, sento già me stesso, come un alieno vissuto in un tempo lontano, riconoscibile solo da un connotato come il mio sopracciglio sinistro all’insù, seppellito vivo nelle sue Sodoma e Gomorra da un anticorpo in forma di virus con il quale il Pianeta Terra si è dovuto difendere dal Cancro che gli andava provocando. Sul giorno che verrà, perché verrà, so che solo un nuovo me stesso potrà riabbracciare, prima mia madre, poi tutti voi.
Michele Mario Viggiani
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